sabato 5 maggio 2018

SAVONA 23 APRILE 1945: QUEI MARO' CHE IMPEDIRONO UNA STRAGE



Leonello  Oliveri
Pontone armato “Faà di Bruno, G.M. 194”: forse qualche savonese dei più anziani ricorda ancora questo nome e la tozza sagoma di questa “batteria galleggiante “ armata con due poderosi cannoni da 381 e quattro da 76 ancorata, dal ’43 al ’45, al molo sottoflutto del porto di Savona. Era lunga 55 metri, larga 27 e stazzava 2797 tonn. Forse qualcuno ricorda che il 25 aprile del ’45 fu trovato affondato  al suo ancoraggio, dove restò, adagiato sul basso fondale e con le sovrastrutture emergenti dall’acqua, fino al febbraio del ’47 quando fu finalmente recuperato, trasportato nei cantieri di demolizione di Vado e lì smantellato.
Probabilmente pochi però sanno che il 23 aprile del ’45 quel pontone aveva rischiato di esplodere, e con lui sarebbero saltati in aria oltre 17.280 chilogrammi di esplosivo contenuti nella sua santa barbara. Immaginiamo quali danni avrebbe provocato tale enorme esplosione al porto e alle case circostanti.
Quella che avrebbe potuto essere una tragedia fu evitata grazie, così racconta un reduce, all’atto coraggioso e responsabile di alcuni marò della Marina Nazionale Repubblicana (quella della Repubblica Sociale di Mussolini, per intenderci) che a rischio della loro vita riuscirono a far affondare il pontone, ormai circondato dalle fiamme, evitando così una possibile esplosione.
I due marò protagonisti del gesto si salvarono, ma altri loro compagni non ebbero la stessa fortuna: alcuni marinai dell’equipaggio di questo pontone (poco più che ragazzini, arruolatisi volontari nel febbraio del ’45) il 25 aprile cercarono –forse ingenuamente- di tornarsene a casa loro in divisa. Arrivati a Monesiglio -Cn- (dove pochi giorni prima erano stati fucilati 10 partigiani) furono catturati dai partigiani e passati per le armi.
Ma ricostruiamo, per quanto possibile, la vicenda.
Il “Pontone Armato G.M. 194”, nacque come  monitore Faà di Bruno” nel 1915 dal Regio Arsenale di Venezia. Si trattava di un pontone corazzato, una sorta di grossa chiatta dotata di motore e di mediocrissime capacità marinare, costruita per sorreggere due grossi cannoni da 381/40, realizzati per una corazzata poi non impostata. In pratica si trattava di una batteria galleggiante. Come armamento secondario disponeva anche di 4 cannoni da 76/40.
Il Pontone armato al momento
della sistemazione dei cannoni
Durante la I Guerra Mondiale fu ancorato nel golfo  di Trieste da dove bombardò le posizioni austriache sul Carso (e anche obiettivi nella città di Trieste). Dopo la rotta di Caporetto fu ritirato prima  a Venezia poi ad Ancona. Durante il trasferimento il cavo di rimorchio si spezzò e il pontone si arenò. Fu recuperato (ricorda G. Spazzapan, L’ultimo porto, storia ed immagini di navi famose demolite a Savona e a Vado, Sabatelli ed., p.76) “grazie all’intervento di una barca locale con ragazze ai remi”. Durante la II Guerra Mondiale fu rimorchiato a Genova dove fu utilizzato come batteria antinave e antiaerea galleggiante. In tale compito partecipò –in realtà in modo tutt’altro che brillante- alla difesa della città in occasione dell’incursione navale francese del 14 giugno 1940 sparando 3 colpi da 381 contro le navi francesi. Al terzo colpo deve però sospendere il fuoco in quanto il vento  spingeva il fumo delle caldaie nella coffa della direzione di tiro.(sul bombardamento di Genova vedi qui)
Dopo l’8 settembre passa sotto controllo tedesco che gli cambia il nome (diventa Biber) e lo trasferisce appunto nel porto di Savona.
 Qui trascorrerà i mesi terribili fino alla fine della guerra, e qui incomincia la nostra storia.
La nave fu messa nominalmente sotto il comando del ten. di vascello della Kriegsmarine Viebering, ma l’equipaggio (130 uomini, nella regolamentare uniforme della Marina Nazionale Repubblicana)) era esclusivamente italiano. I tedeschi (50 uomini) fornivano solo l’armamento a due delle tre mitragliere da 20 mm. e la guardia ai cancelli.
Il 23 aprile ’45 la situazione precipitò. Quanto segue lo sappiamo grazie alla testimonianza di un membro dell’equipaggio del GM 194, il capo di II Classe  Barisone, pubblicata alle pagine 649- 651 del I volume del libro “San Marco San Marco- Storia di una divisione” di P. Baldrati e risalente al maggio del 1948.  Sua, ovviamente, è la responsabilità dell’esattezza di quanto riportato
Il  capo di II classe racconta che il 23 aprile il comandante riunì l’equipaggio lasciandolo libero di scegliere se aggregarsi alla colonna tedesca che si sarebbe ritirata verso il Po o cercare di raggiungere individualmente le proprie case. Una decina di uomini aderì alla prima opzione, gli altri rimandarono la scelta.
Verso le ore 17 il fatto che avrebbe potuto tramutarsi per Savona in una grave sciagura. Ma diamo la parola al nostro testimone: “Verso le ore 17 andando a bordo per la terza volta notammo altissime colonne di fumo nero e giunti in vista della nave la vedemmo circondata di fiamme. Era successo che i tedeschi destinati al porto avevano fatto saltare una piccola e vecchia nave per ostruirne l’imboccatura. La nafta a bordo si era però incendiata e la nave spinta dal vento si era avvicinata alla nostra che era ormeggiata a 40 metri dall’imboccatura stessa. Facemmo notare al comandante che, allo scopo di evitare un disastro, era necessario affondare la nostra nave” (era carica di esplosivi!, n.d.A.). Avutane l’autorizzazione andai a bordo con il capo meccanico Lacagnina per aprire gli allagamenti. Durante la nostra permanenza a bordo le fiamme, che lambivano la nave da tutti i lati, incendiarono la passerella togliendoci così la possibilità di tornare a terra. Dovemmo infatti saltare sugli scogli bruciacchiandoci un po’ mani e  faccia. La nostra nave  è stata autoaffondata per evitare i danni che certamente avrebbe arrecato alla città di Savona se le fiamme avessero fatto saltare in aria l’esplosivo esistente a bordo. Quale Capo Deposito Munizioni posso fornire le cifre esatte.
Granate da 381/40: erano quelle presenti
sul Faà di Bruno. Immaginiamo i danni
che avrebbero potuto arrecare esplodendo
  • 96 proietti da 381
  • 1600 cartocci granate da 76
  • elementi di carica da 381 (4 per proietto ognuno da kg 45) pari a kg. 17.280.”
A questi doveva aggiungersi il peso dell’esplosivo contenuto in ognuno dei 96 proiettili da 381 e nelle granate da 76.
Per capire il pericolo corso dalla città basterà ricordare che pochi giorni dopo, l’ 8 maggio, l’esplosione di un deposito munizioni abbandonato nella galleria di Valloria provocò 43 morti e 26 feriti.
Il nostro testimone fornisce anche informazioni interessanti circa la sorte del porto di Savona: “Le distruzioni operate in porto da Pionieri germanici si ridussero a 5 gru (danno comunque non indifferente). Tutti gli impianti industriali  e di trasporto non furono invece distrutti o danneggiati e ciò non fu merito dei partigiani, come fu detto in seguito, ma semplicemente perché a nessuno venne in mente l’opportunità di far saltare gli Stabilimenti ILVA, la funivia Savona-San Giuseppe ed ogni altro impianto. Né alcuno dettò ordini in proposito”. Questa è, ovviamente,  la ricostruzione  fatta dal ns. Capo di II classe.

Navi e serbatoi in fiamme nel porto di Sv. dopo la ritirata dei tedeschi:
 forse una di queste colonne di fumo proveniva dalla nave in fiamme
che avrebbe potuto far esplodere  il pontone 
(da R. Aiolfi, N. Di Marco, Bombe su Savona e provincia, Sv, 2004, p. 156)
La testimonianza prosegue poi ricordando la sorte dell’equipaggio a guerra finita, dopo il 25 aprile: “fra l’equipaggio della nave vi furono quattro vittime”. Tra loro “3 ragazzini volontari (..) di Torino presentatisi nel febbraio ’45 pieni di amor patrio e di entusiasmo. Dopo il 25 aprile non pensando a ciò cui andavano incontro si misero in cammino per raggiungere la loro città ma fermati dai partigiani vennero fucilati solo perché indossavano una divisa. Mi spiace di non ricordare i nomi, solo di uno ricordo che il cognome era Merola”.
C’è voluto ben poco per ricostruire alcuni particolari di questa altra vicenda. L’episodio è infatti ricordato, e nella sostanza confermato, da F. Sasso, Guerra incivile, la verità sul’eccidio di Castelletto Uzzone e Monesiglio. Episodi di lotta fratricida tra Liguria e Piemonte(1943-45), GRIFL 2003, pp. 129-130: “Il 25 aprile cinque giovanissimi marò del Xa Mas (tre in realtà della Marina Nazionale Repubblicana n.d.A.), presumibilmente appartenenti al Pontone Armato di Savona, indossati abiti civili cercavano di raggiungere le loro residenze in Piemonte. Giunti sfortunatamente a Monesiglio (dove pochi giorni prima erano stati fucilati 10 partigiani) vennero fermati dai partigiani e, dopo essere stati identificati, vennero uccisi. Probabilmente anche in questo caso entrò ancora in gioco il risentimento e il desiderio di vendetta”.

  E' bastato poi fare una veloce ricerca in internet  per trovare un’ulteriore conferma e i nomi dei tre marò: il 25 aprile a Monesiglio furono fucilati dai partigiani, secondo i dati esistenti nell’elenco dei caduti della RSI, rintracciabile nel web, quattro marò della RSI: uno di 18 anni della X Mas e  i tre marinai  del Pontone Armato GM 194 ricordati dal nostro teste, rispettivamente di 18, 19 e 20 anni. Un quinto marò, anch’egli della Xa e non ancora diciottenne, fu fucilato- sempre a Monesiglio- il 30 aprile.
E mentre sulle strade sconvolte e nelle città martoriate del nord Italia sbocciavano - dopo oltre venti anni di una dittatura che aveva gettato l'Italia in una  guerra assurda e disastrosa- in attesa di quelli della pace gli ultimi frutti avvelenati della resa dei conti e della vendetta, nelle acque oleose del porto di Savona il relitto semisommerso del G.M. 194 stava lì, reso ormai innocuo.
 E ci sembra che l’atto  coraggioso di chi, anche se dalla “parte sbagliata”, evitò probabilmente una grave esplosione, non debba essere dimenticato.
Ma dopo oltre 70 anni per chi ha combattuto ed e' morto "dalla parte sbagliata" spesso non c'e' posto neppure su una lapide di marmo..

Il pontone semiaffondato subito  dopo la guerra
(dal Web)



Leonello Oliveri

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